Oggi la Chiesa fa memoria dei Santi Berardo e compagni.
Si tratta dei protomartiri francescani che ereditarono e realizzarono in Marocco l’aspirazione al martirio dei Fondatori Francesco e Chiara
S. Francesco d’Assisi fu nel XIII secolo un nuovo santo ma anche un “santo nuovo”.
La sua forma di vita si inseriva nella trasformazione sociale, economica e culturale di un’Italia post feudale che si apriva prepotentemente alla città campanile con i suoi commerci e lo sviluppo della borghesia mercante ed artigiana.
I viaggi e gli scambi con l’Oriente determinarono anche il confronto con l’Islam fornendo nuove opportunità di evangelizzazione in chiave missionaria.
Le prime agiografie sul poverello d’Assisi sono unanimi nel riconoscere il suo desiderio di morire da martire, lontano dai confratelli e dall’Umbria natale, nelle terre del Miramolino, in Marocco, o in quelle del «Soldano di Babilonia», in Siria.
Versare il proprio sangue per la fede cristiana rimane e rimarrà la condizione apicale di testimonianza cristiana e di configurazione a Cristo.
Nel 1219 al terzo tentativo di viaggio missionario, Francesco giunse a Damietta, in Egitto, dove, preso con sé frate Illuminato, incontrò il sultano ayyubide Malek-al-Kamil.
Impegnato nella via indicata dal Signore, tutto teso verso l’annuncio del vangelo e della pace, Francesco non poteva oltraggiare l’islam e il suo profeta davanti ai saraceni, né mostrare un comportamento diverso da quello adottato in Italia, tra i contemporanei cristiani, che esortava alla conversione con parole semplici e un atteggiamento umile, pervaso di ammirazione per la Creazione e di compassione per le creature.
Raggiunge i crociati in Egitto e rischiando di passare per un pazzo, come gli fa osservare il compagno, Francesco cerca di dissuadere i cristiani dal combattere e annuncia loro la sconfitta.
La penitenza, l’umiltà, la povertà, la pace, elementi costitutivi della vocazione e della vita del fondatore e dei suoi frati, dovevano tradursi nell’annuncio del vangelo e in comportamenti derivati direttamente dal suo messaggio al fine di guadagnare le anime a Dio, centro della loro vocazione e fine ultimo della loro ragione di essere al mondo. La pratica del vangelo ad litteram implicava anche una forma di aggiornamento dell’universalismo del messaggio cristiano, che Francesco operò integrandolo al suo propositum vitae, atteggiamento che lo condusse a introdurre una notevole innovazione. Con lui infatti l’evangelizzazione, che nella tradizione cristiana occidentale a partire dall’alto Medioevo era orientata principalmente verso i «pagani», assunse una nuova dimensione, in quanto doveva esplicitamente essere rivolta non solo a tutti i cristiani, ma anche ai saraceni e agli «altri infedeli», e questa scelta doveva essere inserita nella Regola, acquisendo così un valore normativo tanto forte quanto nuovo. In questa prospettiva, la morte subita in nome della fede e riconosciuta come tale dalla comunità, cioè il martirio, rappresentava una possibilità, un rischio che i frati dovevano conoscere, assumere e accettare, senza comunque cercare di ottenerla con un comportamento provocatorio e blasfemo.
Il “desiderio di martirio” di Francesco si articolava in profondità con il desiderio di imitare l’esempio degli apostoli, morti testimoniando la loro fede per diffonderla nel mondo.
Alla domanda se Francesco fosse convinto, lasciando l’Umbria per il Marocco, la Siria o l’Egitto, che non sarebbe tornato vivo, forse è possibile rispondere affermativamente; infatti, i pericoli impliciti in un’impresa di quel tipo – che non dipendevano esclusivamente dalla presunta ferocia dei saraceni – potevano essere facilmente immaginati dagli uomini, semplici o colti, dell’epoca.
Nella seconda parte del su Testamento, Francesco affronta le questioni emerse in seguito allo sviluppo della fraternità. È presente un’allusione ai frati che, per paura della «persecuzione dei loro corpi» osano chiedere una lettera di protezione alla curia romana per ottenere una forma di sicurezza che non si addice alla vita di «forestieri» e «pellegrini» a cui sono chiamati. Francesco vieta loro fermamente di agire in tal modo, consigliando di fuggire verso un’altra terra «dovunque non saranno accolti», per «fare penitenza con la benedizione di Dio». Il fatto che inviti i frati a non temere la «persecuzione», come precisa chiaramente la prima versione della Regola, dimostra che Francesco era consapevole dei possibili rischi. Il suggerimento di recarsi «in altra terra» quando non erano i benvenuti era un modo per incoraggiarli esplicitamente a non correre pericoli inutili e non mettere volontariamente a repentaglio la loro vita.
Diversi indizi presenti nelle fonti del XIII secolo dimostrano che il tema del martirio ha rappresentato fin da quell’epoca un punto sensibile dell’identità francescana, allora in fase di costruzione.
Oltre a essere presenti nella vita religiosa, i martiri comparivano anche nelle Chanson de geste che alimentavano la cultura cavalleresca, molto diffusa nell’Italia del XII e del XIII secolo, e di cui si era nutrito anche Francesco. Forse non si è rivolta la dovuta attenzione ai racconti che mettono in scena Orlando, Oliviero e i paladini di Francia nel ciclo di Carlo Magno e al ruolo che essi svolgono nella diffusione di una nuova figura di martire cristiano, presentato come un guerriero eroico, vittima dei saraceni.
Qui l’aspirazione al martirio appare come una sorgente concreta di movimento e realizzazione, associata a uno spazio gerarchizzato e definito dalla necessità dell’evangelizzazione. Il contesto martiriale in cui vissero Francesco, i suoi compagni e i suoi agiografi, ricordato molto brevemente, permette di comprendere meglio le indicazioni fornite dalle due Regole riguardo all’evangelizzazione e ai rischi corsi dai frati. Tuttavia, le modifiche introdotte tra la versione del 1221 – che riprende in parte alcune disposizioni anteriori forse formalizzate meno bene, ma continuamente sviluppate e precisate dal 1209-121030 – e quella approvata dal Papa nel 1223, devono essere considerate anche alla luce dell’esperienza dei primi martiri dell’Ordine, Fra Berardo e compagni.
Secondo la leggenda essi furono decapitati il 16 gennaio 1220 a Marrakesh, nel regno di Miramolino in cui Francesco aveva sperato di recarsi, ma senza mai arrivarvi. Un approccio di questo tipo, che trasforma l’episodio di Marrakesh in un elemento importante nell’evoluzione della Regola. È noto che la Regola cosiddetta “non bollata” del 1221 era più lunga, più sviluppata e ricca di citazioni evangeliche di quella del 1223, più breve e, per questo motivo, ritenuta più funzionale. Il capitolo 16 della prima è inserito in una sezione in cui sono stabilite le norme di vita dei frati nel mondo, secondo la loro vocazione evangelica. La possibilità di recarsi inter saracenos et alios infideles viene offerta ai frati che lo desiderano, a condizione che il loro «ministro e servo» conceda l’autorizzazione, «se vedrà che sono idonei ad essere mandati».
I frati possono essere soggetti e confessare di essere cristiani, senza cercare né liti (lites), né dispute (contentiones); questo significa che non devono provocare in nessun modo le persone a cui si trovano sottoposti, oppure, se vedono che «piace a Dio», possono annunciare la Parola, per convertire e battezzare. Nel finale di questo passaggio sono riportate citazioni evangeliche che parlano di confessione di fede, sofferenza derivata dalla persecuzione e possibilità di fuga in tali circostanze, evitando così esplicitamente un possibile martirio, termine che però non compare e sarebbe comunque impronunciabile in un contesto del genere. Due anni dopo, nella Regula bullata, questa prospettiva scompare del tutto. Il capitolo 12, che proprio per la sua posizione alla fine del testo acquisisce un’importanza particolare, riprende il titolo della versione precedente, ma il contenuto si limita a sole due frasi. Nella prima, la possibilità di andare «tra i saraceni e gli altri infedeli» è strettamente limitata dall’imperiosa «divina ispirazione» e il necessario permesso richiesto ai ministri provinciali. La seconda frase, in cui compare la novità più importante rispetto alla formulazione precedente, ha una struttura tutta al negativo: i ministri non concedono a nessuno il permesso di andare, se non a quelli che saranno ritenuti adatti a essere inviati. Mentre nella prima versione della Regola il ministro era pregato di non contradicere i frati, nella seconda ai ministri viene richiesto un atteggiamento circospetto a priori rispetto a questo genere di iniziativa. Infine, non si parla più né di conversione, né di battesimo, né dei possibili rischi. Al termine dell’approvazione pontificia del 1223, la regola dei frati minori presentava ancora, perciò, la particolarità evidente di considerare la possibilità di andare a predicare ai non cristiani, anche se questa iniziativa era ormai sottoposta al rigido giudizio della gerarchia provinciale, che doveva preoccuparsi dell’“idoneità” dei frati a predicare su un terreno difficile. L’attitudine richiesta dipendeva sicuramente meno dalla capacità di parlare efficacemente ai musulmani, in quanto ciò era formalmente vietato, che da quella di resistere alle eventuali pressioni e violenze e di predicare e dirigere correttamente le popolazioni cristiane che vivevano nella società musulmana, con tutti i rischi spirituali che poteva comportare un’impresa del genere: mercenari, mercanti e prigionieri cristiani avevano bisogno di essere guidati e sostenuti spiritualmente, ed era questo che intendevano offrire i francescani, con l’approvazione del papato. Ma basta la necessità di rendere la Regola più funzionale a spiegare il motivo delle modifiche operate nel capitolo dedicato all’invio dei frati tra i saraceni e gli infedeli?
È possibile che gli eventi di Marrakesh, la loro risonanza e, più in generale, il fascino che alcuni frati della prima generazione provavano per il martirio, sono elementi che potrebbero essere addotti per interpretare il cambiamento di tono e di contenuto del capitolo 12 della Regula bullata.
Per quanto riguarda le fonti a carattere agiografico, esistono quattro testimonianze che fanno riferimento ai martiri di Marrakesh, tutte posteriori al 1223, ma sicuramente del XIII secolo. La più antica è la Legenda assidua dedicata a sant’Antonio da Padova, redatta poco dopo la sua canonizzazione nel 1232. Qui non sono citati né i nomi, né il numero dei «santi martiri», ma viene segnalato che la traslazione delle loro reliquie da Marrakesh a Coimbra da parte di Pietro, l’Infante del Portogallo, e i miracoli operati grazie a esse furono all’origine della vocazione francescana del santo, aspirante anche lui al martirio.
Nell’autunno del 1253 in vista della canonizzazione di Chiara d’Assisi su tredici suore interrogate, due citano i frati martirizzati a Marrakesh e il desiderio di Chiara di imitare il loro esempio, recandosi nella stessa città o soffrendo «il martirio per amore di Dio, la difesa della fede e del suo Ordine». Infine, Beatrice viene anche invitata a descrivere in che cosa consistesse la santità della consorella: considera il suo «desiderio di martirio» uno degli elementi più evidenti, dopo «l’amore per il suo Dio» e prima dell’«amore del Privilegio della povertà», che conclude l’elenco delle virtù e dei comportamenti devoti della santa.
Nessuno fa mai nulla per Dio senza essere contraccambiato.
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